“In Italia ero stanco di lavorare da precario o con la partita iva”. Lo hanno confessato ancora una volta diversi giovani, provenienti sia dal Nord che dal Sud Italia, che hanno partecipato agli ultimi colloqui organizzati da “Germitalia” nel corso del mese di dicembre per la selezione di infermieri per i policlinici di Jena e Monaco da assumere a tempo indeterminato.

In Italia la figura dell’infermiere che lavora in regime di libera professione è diventato frequente ritrovarla in diverse strutture sanitarie sia pubbliche che private. Ma, al di là della mancanza di quella stabilità che solo un’assunzione a tempo pieno ed indeterminato darebbe, quali sono gli altri pregiudizi, anche sulla posizione contributiva, di chi lavora come professionista con partita iva? In Italia è l’Enpapi (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza della Professione Infermieristica) ad assicurare la tutela previdenziale e la protezione assistenziale in favore degli infermieri, assistenti sanitari, infermieri pediatrici che esercitano la professione in forma autonoma o associata e che sano iscritti nei Collegi provinciali Ipasvi. Gli iscritti all’Enpapi devono versare la contribuzione nelle seguenti misure: un contributo soggettivo obbligatorio (per il 2017 pari al 15% del reddito netto professionale, con un contributo minimo di 1.600 euro) ed un contributo integrativo calcolato nella misura del 4%, applicata su tutti i corrispettivi lordi che concorrono a formare il reddito imponibile dell’attività professionale (anche qui è, in ogni caso, dovuto un contributo minimo integrativo pari a 150 euro). Facile immaginare che, per redditi simili a quelli di un lavoratore dipendente, il tornaconto ai fini pensionistici sia largamente inferiore. Per un infermiere subordinato, la contribuzione si attesta intorno al 40% della retribuzione imponibile, aliquota cui si avvicina la Germania, con il vantaggio della validità anche in Italia di questi accantonamenti pensionistici che si dovessero maturare accettando una delle tante proposte di assunzione che provengono ogni anno agli infermieri italiani.

In più, l’infermiere che nel nostro paese lavora da libero professionista (che la cosa sia genuina o meno) dovrà versare alla Cassa pure il contributo di maternità destinato alla copertura delle indennità erogate a favore delle professioniste iscritte, mentre è inoltre obbligatorio dotarsi di una copertura assicurativa (nell’esercitare una qualsiasi attività vi è la possibilità di recar danno ad altri, in particolare per un infermiere il rischio è molto elevato), e qui l’importo può variare a seconda delle condizioni che vengono proposte all’assicurato.

Poi viene il discorso fiscale, perché ci sono le tasse da pagare e non c’è il datore di lavoro-sostituto d’imposta che, come nel caso del dipendente, trattiene mensilmente le imposte e versa all’erario. In questo senso, almeno, il nuovo regime forfettario introdotto nel 2015 rappresenta l’unico regime di vantaggio con una aliquota Irpef decisamente più bassa rispetto agli scaglioni ordinari (prevista per gli infermieri  un’imposta sostitutiva del 15%, che può essere ridotta al 5% per i primi cinque anni), con iva ed Irap esenti e contabilità semplificata, ma con stretti obblighi da rispettare: non fatturare più di 30mila euro all’anno; non percepire redditi da lavoro dipendente superiori sempre a 30mila euro se allo stesso tempo si è anche titolari di un rapporto dipendente; riportare un valore dei beni strumentali al netto degli ammortamenti non superiore ai 20mila euro; aver sostenuto non più di 5mila euro di spese annue per eventuali lavoratori dipendenti.

Nello Giannantonio