Il tempo che occorre per indossare la divisa di lavoro deve essere pagato. Lo ha stabilito il tribunale di Bari, con una recentissima sentenza, che ha condannato la competente Asl al pagamento di 165mila euro nei confronti di tredici operatori socio-sanitari, sostenuti dal sindacato Usppi Puglia.

L’azienda sanitaria di Bari è stata condannata a retribuirli del corrispettivo di venti minuti di lavoro (dieci minuti prima e altri dieci dopo il turno) per ogni giorno di servizio effettivo dal 1995.

Una sentenza che potrebbe creare un nuovo precedente anche nel campo infermieristico. Non a  caso, in una nota il segretario nazionale dell’Usppi, Nicola Brescia, ed il segretario provinciale Gianfranco Virgilio parlano di “causa pilota” e annunciano che “da questo momento molti altri dipendenti vedranno riconosciuto questo diritto comprensivo del risarcimento retroattivo per gli emolumenti non versati dall’azienda sanitaria, rispetto all’orario effettivamente realizzato”.

Si torna, così, a parlare del cosiddetto “tempo tuta”, quello cioé necessario ad indossare e togliere la divisa da lavoro: secondo la sentenza dei giudici baresi che hanno accolto il ricorso dei tredici lavoratori, rientra a tutti gli effetti nell’orario di lavoro.

Finora, secondo l’orientamento prevalente della Cassazione, si è sempre fatta una distinzione in giurisprudenza. Il “tempo tuta” rientra nell’orario di lavoro q

uando l’attività di vestizione del prestatore di lavoro risulti “eterodiretta” dal datore di lavoro, sulla base di specifiche disposizioni contrattuali. Così, se le norme collettive attribuiscono al datore un potere direttivo tale da consentirgli di determinare anche il tempo e il luogo dove indossare la divisa aziendale, senza che residui alcun margine di autonomia al lavoratore, il tempo impiegato rientra allora nell’orario di lavoro e, come tale, va retribuito. In questo caso, infatti, il lavoratore è obbligato alla vestizione sul luogo di lavoro, secondo particolari disposizioni del datore di lavoro e la relativa operazione va retribuita in quanto attività strumentale al corretto svolgimento dell’attività lavorativa.

Di contro, il “tempo tuta” non rientra invece nell’orario di lavoro e non va retribuito quando il datore non ha il potere di scegliere tempo e luogo della vestizione, quindi quando sia data facoltà al lavoratore di scegliere quando e dove indossare la divisa (che può essere la propria abitazione o un altro luogo) prima di recarsi sul posto di lavoro Questo principio è stato di recente ribadito dalla Corte di Cassazione anche con la sentenza numero 23123 del 14 novembre 2016, secondo la quale la normativa vigente (in Italia parliamo del Decreto legislativo 66/2003 di attuazione delle direttive europee) non preclude che “il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo e debba essere pertanto retribuito”. Il decreto 66/2003 si limita a stabilire, all’articolo 1, che costituisce orario di lavoro “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

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Nello Giannantonio