Il governo britannico dovrà pur dare una risposta a quel 52% di elettorato che ha dimostrato di volere una svolta anche sul tema immigrazione votando l’uscita dall’Unione europea. E le future ripercussioni sul mondo del lavoro iniziano ad intravedersi. Il governo di Theresa May è infatti pronto, secondo le ultime rivelazioni della stampa britannica, a limitare l’ingresso di lavoratori “non qualificati”, per i quali si profila la concessione di un permesso dalla durata non superiore a due anni una volta che si sarà perfezionata la Brexit (entro marzo 2019). I soggetti “altamente qualificati”, invece, dovrebbero ottenere un permesso valido dai tre ai cinque anni. Ad ogni modo, si preannuncia anche un giro di vite sul ricongiungimento di familiari. Un lavoratore dell’Unione europea che volesse portare con sé un familiare dovrà, infatti, dimostrare di possedere un reddito annuo non inferiore alle 18.600 sterline. Gli stranieri residenti da oltre cinque anni, a loro volta, vedranno regolamentati da un apposito statuto i propri diritti prima di un periodo transitorio di due anni.
In Gran Bretagna, insomma, l’immigrazione dovrà essere “un beneficio sia per il paese che per i residenti, non solo per gli immigrati” si legge nel documento programmatico del governo May, che punta ora a dare occupazione a migliaia di “british”. Ai datori si lavoro locali, con effetto chiaramente dissuasivo, si chiederà di dimostrare “la necessità economica” di assumere un cittadino europeo. Eppure in molti settore produttivi di oltremanica già è scattato l’allarme. L’associazione degli albergatori, ad esempio, è fortemente preoccupata, stimando che il 75% dei camerieri, il 25% dei cuochi ed il 37% del personale addetto alle pulizie proviene dall’Unione europea. Da vedere l’impatto anche in campo sanitario (quindi anche infermieristico), altro settore il cui andamento è stato sostenuto fortemente dalla forza lavoro italiana ed europea negli ultimi anni.
Nello Giannantonio
